EffimeraMente

Pensieri in continua mutazione ed evoluzione

martedì, maggio 23, 2006

Racconto


Ogni tanto scrivo racconti, nugae per passare il tempo...

LA CONDANNA

Leggete, questa è la mia storia..

Sono nato il 13 marzo, anno del Signore 1722.

E’ evidente, dunque, che tra una settimana contando da oggi, sesto giorno di marzo dell’anno 2006, cadrà il mio duecentottantaquattresimo genetliaco.

Di nobile e antica schiatta, molteplici documenti attestano la partecipazione del fondatore della Nostra Casata alla Prima Crociata, dimoravo con mio Padre, il Duca di Beaujou-Goncourt, nell’avito palazzo di famiglia nella vasta campagna a ridosso di Parigi. Di indole silenziosa e schiva alla ritrosia innata del mio carattere si univa una condotta scontrosa e poco cordiale che mi sottraeva sin dalla più tenera infanzia ai giuochi abituali dei miei coetanei. Mai ebbi a rotolare nel fieno delle stalle in compagnia dei figli giovinetti della servitù, mai addomesticai un cane piegandolo ai miei voleri, costringendolo a fingersi morto a comando o a porgere le zampe allo scopo di ricevere in cambio un pezzo di carne. Mai mi lanciai in corse affannose per la campagna in quelle cacce al tesoro che sovente impegnavano gli altri ragazzi negli assolati pomeriggi estivi, non una volta le mie risa argentine risuonarono sotto le arcate del padiglione di mia Madre quando giocolieri e funamboli intrattenevano le dame durante le festicciole di compleanno. Mio Padre non poté mai godere della mia compagnia nelle battute di caccia, neanche in quelle occasioni solenni ove Sua Maestà in persona aveva la compiacenza di onorare la nostra Casa con una Sua visita. Nemmeno una volta volli montare lo splendido stallone baio donatomi dai miei genitori per il mio tredicesimo compleanno. Mi limitai a carezzargli la lunga criniera nera intrecciata di gale con la punta delle dita facendo scorrere lo sguardo sul mantello color dei mattoni e subito comandai che fosse condotto nelle stalle. Il solo contatto, sebbene fugace, con quell’essere scalpitante e vigoroso, la sola visione dei suoi muscoli contratti pronti a lanciarsi in corse affannose tra i boschi generavano in me il più profondo disgusto.

Feste, balli, pranzi di gala non esercitarono su di me, giovinetto, alcuna attrattiva.

Le chiome bionde delle fanciulle, agghindate di piume o impreziosite di gemme, non richiamavano la mia attenzione. I ventagli preziosi che celavano le piccole bocche sorridenti, i nei vezzosamente applicati su guance rosate di belletto, gli sguardi languidi lanciati da un capo all’altro degli enormi saloni, i bigliettini amorosi lasciati cadere tra i fiori nei vasi, i fazzoletti delicati di battista scivolati dalle mani inguantate e precipitati in terra accanto ad un sofà, nulla di tutto questo poteva scuotere la mia assoluta inerzia. Ogni civetteria femminile con me era solo un inutile spreco di tempo. Le molteplici gonne fruscianti, le sete, quelle complicate architetture di stecche che gonfiavano i corpi e gli stretti corsetti con i loro mirabili intrecci a sollevare seni appena sbocciati non solleticarono mai la mia curiosità, non ebbi mai a chiedermi cosa fosse nascosto sotto quei monumenti di trine e merletti. Quelle forme acerbe ingrossate di stoffe non significavano nulla per me.

Non un fremito, non una curiosità, non un impulso vitale.

Ero vivo eppur nello stesso tempo morto.

Trascinavo i miei giorni nell’inattività assoluta, seduto nel vano della grande finestra della mia camera a guardare al di fuori. Eppure non ero malato, almeno non lo ero nel corpo. Ma a sollevare il mio torace nella faticosa operazione del respirare era l’anima avvizzita di un vecchio, la mente spenta di un cadavere muoveva il mio muscolo cardiaco attimo dopo attimo nell’incessante pompare del sangue.

Non avevo scopo, non avevo voglie.

Vivere rappresentava solo un vuoto accumularsi di ore lente ed insensate che si susseguivano giorno dopo giorno, anno dopo anno.

La morte di mio Padre mi lasciò finalmente padrone assoluto della mia inattività, decisi quindi di sollevarmi anche del penoso compito di dover fare toeletta per presentarmi al tavolo del desinare. Disposi che ai pasti mi fosse servito in camera solamente un vassoio con del pane, del vino e della carne poiché anche il semplice atto del mangiare costituiva per me un tedio infinito.

I più clementi nei miei riguardi, tra di essi mia Madre, scusavano la mia condotta adducendo il pretesto della mia innata riflessività, ma invero sbagliavano poiché le ore alla finestra erano vuote anche di pensiero. Io osservavo l’esterno, ma su nulla esercitavo le facoltà di giudizio, mi limitavo a vedere e obbligavo la mente a restare sopita.

Oggi comprendo quale pazzia fosse, ma in quei tempi desideravo solo la morte che desse riposo a quelle membra centenarie di giovane uomo.

I libri si accumulavano sul mio tavolo, non leggevo e non scrivevo lettere. Al mio segretario dettavo con infinito dispetto quelle missive necessarie alla conduzione dei miei affari, sbrigavo quell’incombenza come se mi fosse fatta violenza fisica poiché ero costretto a dovermi vestire per rendermi presentabile ad un mio sottoposto. Solo il mio antico lignaggio m’impediva di essere trasandato in presenza d’altri, quella sorta di orgoglio che ci fa sentire migliori esclusivamente in virtù delle nostre nobili origini e che ci obbliga a porci sempre e comunque al di sopra di tutti nei modi, nei gesti, negli abiti.

Invecchiavo e con l’età matura aumentava la noia di vivere, o sarebbe più corretto dire che aumentava la noia verso quella forma vegetativa di esistenza che avevo scelto di condurre, ma il mio spirito aborriva adesso qualsiasi forma di attività con una repulsione ancora maggiore di quella provata in giovinezza.

Gli echi rivoluzionari che giungevano da Parigi arrivavano filtrati alle mie orecchie disattente senza che io provassi lo sconvolgimento che scuoteva i miei pari. Facessero i villani quello che volevano! Io attendevo la morte e se avessero assaltato il mio palazzo mi avrebbero evitato anche la fatica di dover provvedere da solo. Perché alla fine quello sarebbe stato il mio Fato. Un colpo netto di rasoio alle vene dei polsi, unico atto di azione in una vita di stasi.

Requie non giungeva nemmeno di notte.

Il sonno, il ristoro del giusto, di colui che riposa dopo la fatica, sfuggiva dai miei occhi sommando alle ore insane del giorno anche la noia di quei minuti interminabili che si dipanavano come un rotolo di spine nel buio della camera silenziosa. La pendola del salottino privato batteva le ore, ma io percepivo finanche il frusciare delle lancette sull’avorio del quadrante, mi figuravo il loro avanzare lento, beffardo, indisponente e soprattutto incurante della mia veglia forzata.

Non riuscivo a tollerarlo abituato com’ero ad imporre il mio volere come legge nei miei possedimenti. Al pari di un Dio maligno era mia facoltà sopprimere la vita di un servo che mi avesse reso scontento con la sua condotta, ma il tempo, le ore, i minuti, i secondi erano al di fuori del mio controllo, piccole ed insignificanti particelle, inquietanti nella loro ineffabilità. Esse trascorrevano prescindendo da me e dai miei bisogni e io non avevo modo alcuno di ridurle ai miei voleri.

Allora mi alzavo, stizzito, e per farmi dispetto da solo avevo preso l’abitudine di passeggiare nel parco. Almeno così, dopo alcuni minuti di moto, la stanchezza delle membra scacciava quella veglia forzata e potevo trovare conforto in quel sonno inquieto di primo mattino.

Ma già presentivo che questa insana condotta mi avrebbe precipitato nel baratro della perdizione.

Girovagavo nel parco, smemorato finalmente del tempo che passava così da non aggiungere alla fatica fisica anche quella dell’osservazione dei luoghi, quando udii alle mie spalle un fruscio di passi. Non ebbi il tempo di chiedere chi fosse o che cosa facesse all’interno della mia proprietà, probabilmente un vagabondo venuto a rubare dei polli, ma dotato di mano lesta quanto il più provetto dei tagliagole.

Non compresi, non urlai. Caddi vomitando sangue, le mani premute sul collo restando raggomitolato sull’erba mentre il mio aggressore si dileguava. Nel silenzio assoluto ascoltavo il mio cuore battere sempre più lentamente e il gorgoglio di quello strano liquido rosso che sembrava appartenere ad un altro che non fossi io. Defluiva denso, diventava una pozza scura accanto al mio volto, rifletteva le stelle che trapuntavano il cielo al di sopra di me, fredde e distanti.

Infine più nulla, morivo e non provavo niente di niente.

Attesi che il cuore pompasse per l’ultima volta, esalai il respiro definitivo e poi rimasi in ascolto. La mia mente era vigilie all’interno del mio corpo cadavere.

In silenzio.

Rimasi così raggrumato in me stesso senza osare far nulla, per la prima volta stranamente apprezzavo i miei muscoli pronti all’azione, ma un indescrivibile senso di prudenza mi intimava di restare fermo.

Passò il tempo, un’alba livida spuntò all’orizzonte e con un sussulto ascoltai il mio cuore rimettersi in moto. Strano sentire lo scatto di una molla di orologio provenire dall’interno di una carcassa morta, ma eppure era quello che mi stava capitando. Il cuore batteva e il mio diaframma intorpidito si sollevò per la prima volta dopo molte ore.

Compresi che era tempo di rientrare, mi alzai e d’istinto portai la mano alla gola per pulirmi del sangue, pronto a scostarla con raccapriccio se avessi sentito sotto le dita i lembi di pelle squarciati dal taglio. Invece nulla, ma invero già sospettavo che la ferita fosse svanita. Se il mio cuore era stato capace di ripartire da solo, un taglio che si rimarginava era pari ad un’ inezia.

Scossi le foglie secche dalla mia veste da camera e mi avviai verso il palazzo.

La servitù si stava svegliando, quegli uomini semplici mi guardarono sorpresi non so se a cagione del mio aspetto o semplicemente nel vedermi alzato di primo mattino, salutai tutti con un cenno del capo e salii nelle mie stanze.

Un occhiata al grande specchio da toeletta e compresi il motivo degli sguardi curiosi dei servi.

I miei capelli grigi e radi si erano fatti maggiormente folti e scuri, le rughe che segnavano il mio viso erano spianate, il naso non più cadente, gli occhi non più cisposi. Non ero tornato fanciullo, no questo non era accaduto, ma tutto il mio sembiante non dimostrava più di cinquant’anni.

Urlai come una bestia presa dalla tagliola, colpii con forza lo specchio mandandolo in frantumi. Volevo esser morto e mi ritrovavo ancora vivo e rinvigorito!

Se al momento di andare a letto la sera precedente confidavo sulla mia età ottuagenaria per giungere ad una fine prossima e decorosa, quella che mostravo ora di primo mattino allungava invece la mia condanna.

Maledizione, sortilegio, incantamento? Quale divinità beffarda osava prendersi gioco di me in quel modo crudele?

Chiusi a chiave la porta e raccolsi da terra uno dei cocci dello specchio, con selvaggio piacere lo feci scorrere lungo i polsi, vidi la carne aprirsi e rivoli di sangue rosso gocciolare dalle ferite, poi la malia di cui ero vittima operò in me il mutamento e osservai con orrore infinito i tagli richiudersi lasciando la mia pelle liscia e soda senza traccia alcuna della violenza patita.

Provai, provai e provai ancora. Sulle braccia, sulla gola.

Afferrai un tagliacarte dallo scrittoio e me lo conficcai dritto nel petto, lo rigirai sentendolo affondare in me sempre più profondamente mentre cadevo in terra gemendo.

Restai lì come era accaduto durante la notte, ad attendere che il respiro svanisse e il cuore sussultasse per un ultima ( illuso!) volta fino a quando, dopo quella che a me parve un’eternità, inesorabile lo sentii riprendere a battere, un colpo dopo l’altro.

A fatica, evidentemente quel rigenerarsi continuo spossava il mio organismo, mi aggrappai alle cortine del letto e mi rialzai. Il sangue imbrattava in larghe chiazze il pavimento, la mia veste ne era interamente ricoperta e spruzzi vermigli trapuntavano pareti e mobilio. Strappai le lenzuola e con quelle nettai, mai in vita mia avevo lavorato tanto e con tanta puntigliosità, tutto quello su cui si posava il mio sguardo. Era sera quando terminai. Giudicai soddisfacente l’aspetto mio e dell’appartamento e riaprii la porta chiamando a gran voce il mio valletto.

Il servo, che durante quella mirabolante giornata aveva più e più volte, invano, bussato alla mia porta, si precipitò al mio cospetto chiedendomi di cosa avessi bisogno. Chiesi il consueto vassoio di pane, vino e carne e diedi disposizioni affinché il grande involto di biancheria da letto che troneggiava nel centro del mio salottino fosse portato via e bruciato subito.

Il vento rivoluzionario di Parigi non spirava ancora forte in direzione dei miei possedimenti, i servi ubbidivano ancora prontamente ai miei voleri soprattutto a causa del mio parco stile di vita che non richiedeva da parte loro un lavoro estenuante. Quindi senza fiatare furono eseguite le mie richieste e in breve tempo fui ristorato e messo a letto. Per la prima volta, dopo molti anni dormii.

Al mattino ripresi la mia vita come sempre l’avevo condotta, inattivo e parassitario, ma ora avevo consapevolezza dell’eternità della mia condanna.

Fui costretto a vendere il Palazzo e tutti i miei possedimenti, emigrai in Inghilterra prima che la Rivoluzione si decidesse a spazzare via la mia epoca e tutti i suoi vizi, anche se a volte penso con rammarico a quanto sarebbe stato interessante vedere l’effetto della ghigliottina sulla mia testa.

Periodicamente il mio organismo si arresta, le funzioni vitali si assopiscono per una notte, ma al mattino dopo inevitabilmente mi ritrovo ringiovanito, a volte di vent’anni a volte di trenta. Dipende e non ho ancora compreso appieno lo strano meccanismo che governa la mia esistenza.

Quando questo accade so che è giunto il tempo di migrare, raccolgo i miei effetti personali ed i miei beni e cambio città per non destare i sospetti della gente che mi vive accanto.

Non so se esistano altri come me, non so fino a quando continuerò a rigenerarmi e se tutto ciò un giorno dovesse aver fine, per ora mi sono adeguato alla modernità.

Seduto non più nel vano della finestra, ma davanti ad un enorme televisore acceso giorno e notte e che mi allevia il peso dell’insonnia. Così guardo il mondo che vive, ma ancora non provo desiderio di agire anzi il disgusto è radicato in me sempre più forte vedendo il continuo affanno delle genti nella loro corsa febbrile lungo la china dell’esistenza.

Non ho mai più provato ad uccidermi, ma continuo ugualmente a maledire ogni istante Colui che ha disposto per me questa vita dannata e senza speranza. E sono certo che Egli riderà forte quando nell’attimo stesso in cui assaporerò per la prima volta la bellezza dell’esistere, come un novello Faust, il mio cuore cesserà per sempre i suoi battiti.

2 Comments:

Blogger TheCopywriter said...

Dejà vu! Già detto...bello allora, bello qui! Hai preso una rotta diversa...pubblichi anche qui...non si fa nonono!(scherzo, sì che si fa!)

12:11 PM  
Blogger ladymachbet said...

Heheh quando non ho voglia di scrivere utilizzo il racconto come arma impropria :-)

4:53 PM  

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