EffimeraMente

Pensieri in continua mutazione ed evoluzione

mercoledì, maggio 31, 2006

Interferenze


Il silenzio è d'oro. A volte, spesso, meglio tacere che affidare al mondo i propri pensieri.
Troppi fraintendimenti, troppa dissonanza di categorie.
Le parole che nascono nel mio cervello devono passare attraverso troppi filtri.
La mia voce, prima di tutto, che potrebbe risuonare sgradevole alle vostre orecchie.
Ci sono poi i termini della nostra bella lingua italiana che possono avere valori diversi da individuo ad individuo.
Inoltre essi devono scivolare attraverso le pieghe della vostra disattenzione, perchè magari mentre io parlo di Cose Definitive ed Assolute, voi state tranquilamente compilando la vostra personale lista della spesa.
E se, infine, riescono a trapelare all'interno della vostra testa subiscono, a causa delle stranbe idee che vi albergano, trasformazioni e manipolazioni tali da renderle irriconoscibili.
Come quel gioco che si faceva da bambini, tutti seduti in cerchio. Il primo bimbo sussurra all'orecchio del suo vicino una frase che deve passare, sempre sussurrata in un soffio, da bocca ad orecchio fino a giungere all'ultimo della serie che ha il compito ingrato di declamarla a voce alta, tra il riso generale perchè in tanti passaggi essa è mutata di senso.
A causa di tante interferenze si è persa la purezza dell'origine.
Così io parlo e voi sentite solo echi dei vostri pensieri.
Udite la mia voce, ma in realtà ascoltate la vostra.
Gratificante.
Meglio tacere, no?
Ma se taccio, di tutto quello che è il mio mondo non trapela all'esterno nemmeno l'eco distorto.
Quindi mi accontento di questi piccoli brandelli di me che vagano e arrivano a voi.
Sempre se siete interessati ad ascoltarmi, ovviamente.


(Che presuntuosa che sono....)

martedì, maggio 30, 2006

Labirinto

Sera e si delira.

Necessario svuotare la testa e ordinare le cose.

Non che sia successo tanto, le cose in fondo sempre le stesse sono…ma meglio fare ordine nel caos.

(Primo)

Sono stanca, non è una novità.

Avrei bisogno di riposo e non posso riposare. Anzi avrei bisogno di fare quello che voglio e non posso fare quello che voglio.

Anche stare qui davanti a scrivere e pensare, ma non ho mai tutto il tempo che desidero.

(Secondo)

Ho settemila abbozzi di storie in testa, pagine e pagine da scrivere.

Le scriverò?

Non credo…ci penso…ordino le parole in frasi e infine le cestino.

Tutto direttamente in mente. Senza passarle attraverso il foglio (o lo schermo).

Normale? Non lo so.

(Terzo)

Terzo?

Tertium non datur…

Ma si, se posso delirare in italiano perché non farlo anche in latino?

Non ho terze ipotesi, terze idee, terze necessità…

Devo solo riposare e scrivere, ma suppongo che non riuscirò a fare nessuna delle due cose..almeno non in tempi brevi.

Per questo mi sento presa in un labirinto…di idee contorte soprattutto…con tutte le vie di fuga chiuse.

Anche perché la libertà è solo un’utopia.

O credete davvero di essere liberi?

Ma ne parliamo un’altra volta.

Stasera mi riservo il privilegio di oziare per qualche ora.

lunedì, maggio 29, 2006

Considerazioni


Abbastanza soddisfatta.
Gli italiani che hanno votato in questo fine settimana pare che non abbiano alcuna voglia di assecondare i deliri del Cavaliere sui brogli presunti delle politiche.
Il segnale forte contro la minaccia rossa che avrebbe occupato tutte le posizioni di controllo non c’è stato, quindi…lasciateci governare! (cit.)

Voltiamo pagina, di politica se ne è parlato fin troppo in questi ultimi giorni.
Meglio non abusarne.
Anche perché i grandi ideali, le grandi prospettive è inevitabile che si contaminino al tocco fatale del velluto delle poltrone.
Ma non possiamo vivere senza regole e leggi, l’uomo necessita di guida.
L’uomo è un animale sociale votato al contrasto con i suoi stessi simili, lo stato di natura è una mera utopia.
Triste, ma vero.
Non possiamo prescindere da ciò.
Incatenati nelle nostre caverne abbiamo solo una visione distorta, riflessa del Bene Supremo.
Lo riconosciamo solamente a tratti, anzi molti di noi preferiscono tenere gli occhi serrati pur di non vederlo.
Sopravviviamo immersi nella materia, lasciamo lo Spirito inaridirsi fino a quando, sfinito, non si dilegua.
Collezioniamo suonerie di cellulari, ridiamo a storielle volgari, guardiamo spettacoli pietosi.
Abbiamo dimenticato la Musica, non leggiamo, non ci informiamo, non progrediamo.

Perché?

E’ più facile essere mediocri?
Perché ci rassicura far parte della massa globalizzata che va in Egitto per mangiare da Mc Donald, siamo più tranquilli chiusi in un villaggio turistico “italian style”.
Niente escursioni che non siano programmate, niente visite che non siano guidate.
I “turisti fai da te” sono pericolosi!

Perché pensano…perché vogliono guardare le stradine nascoste, quelle dove non bisognerebbe gettare l’occhio.
Perché non vogliono un mondo tutto uguale, a misura di massa.

A pensarci bene…non sono tanto soddisfatta.

domenica, maggio 28, 2006

Stasera niente...




Ho scritto un racconto e non ho voglia di scrivere altro...
Sono giornate troppo belle per stare seduta davanti al monitor o forse il fresco del mio giardino è troppo invitante e mi lusinga con promesse di incomparabili delizie.
Quindi, buonanotte per ora... ^-^
Se vi va...leggete il racconto...

SENSI

Resto immobile nel letto, mia moglie al mio fianco dorme tranquilla.
I miei due figli, un maschio di otto anni ed una bambina di sei, a loro volta riposano placidamente nelle loro camere.
Siamo una famiglia normale, abitiamo una casa normale in un normale quartiere di una normale città.
Ma da quattro notti io veglio.
Da quattro sere non mastico la mia tavoletta di sonnifero.
Perché ho bisogno di sapere.
Ho deciso: questa notte aprirò gli occhi.
Ripeto questa frase nella mia mente da stamattina, non è più possibile restare a contare le ore che mi separano dall’alba con le palpebre strettamente serrate, ascoltando i rumori della casa mentre il cuore mi martella all’impazzata nel petto.
Devo aprire gli occhi e scoprire finalmente di cosa è fatta la mia realtà, svelare ogni menzogna una volta per sempre.
Mia moglie è una bellissima donna, alta e snella, dai lunghi capelli di un tenue lilla molto alla moda. Frequenta le associazioni culturali, va in palestra regolarmente per tenere tonico il corpo, cura il nostro giardino, si occupa dell’educazione dei nostri splendidi figli. Non potrei mai lamentarmi di lei, della sua condotta di madre e sposa esemplare.
Ma ormai il tarlo insinuatosi nella mia testa non fa altro che domandarsi quale creatura sconosciuta io stringo ogni giorno tra le braccia.
Il lavoro mi impegna solo al mattino, le tre ore lavorative giornaliere scorrono via in un lampo. Tutto il resto del tempo è occupato dai numerosi svaghi che la città mette a completa disposizione dei suoi abitanti. Immensi campi da golf, biblioteche per coloro che preferiscono sorseggiare una bibita fredda leggendo un buon libro, cinema, teatri, grandi parchi di divertimento per le famiglie con bambini piccoli, per famiglie normali come la mia.
Ogni cosa è gratuita, basta mostrare il tesserino magnetico ed entrare.
Siamo rimasti in pochi sulla Terra ormai, le risorse sono diventate abbondanti per il miliardo scarso di abitanti del vecchio pianeta verde-azzurro.
Secoli fa fu detto da qualcuno di cui non ricordo il nome, non sono uno degli abituali frequentatori delle biblioteche, ”Viva la guerra, unica igiene del mondo.”
Oggi abbiamo imparato a benedire la guerra totale che ha sterminato la grande maggioranza della popolazione terrestre lasciandoci in così pochi a beneficiare di un così bel paradiso.
La tecnologia è alla portata di tutti, non esistono aree sottosviluppate, fame e malattie sono state debellate. Per non ripiombare nei problemi di sovraffollamento del passato non è stato previsto un ripopolamento del pianeta, anzi il controllo delle nascite viene applicato con rigorosa assiduità. Due figli per ogni famiglia, un maschio ed una femmina. Tutto predisposto geneticamente, in modo organizzato e funzionale.
Nelle città colorate e gaie non esiste più criminalità, ogni bene è a disposizione di ogni membro della comunità e il termine “denaro” altro non è che un’obsoleta vestigia di giorni dimenticati.
Al di fuori delle aree urbane, linde ed ordinate, si stendono campagne profumate, spiagge immacolate e mari cristallini, mete abituali delle nostre vacanze mensili.
Non potrei immaginare vita più dolce e piacevole, ma l’uomo è una bestia incapace di godere serenamente di quello che ha.
Adesso il mio cruccio sono i Ripetitori.
Grosse antenne nere che dominano ogni isolato.
L’altro mio cruccio sono le tavolette di sonnifero da masticare ogni sera.
E’ un tarlo, un trapano nella testa che gira e si domanda il perché dei Ripetitori, il perché dei sonniferi.
Ci è stato insegnato a scuola che quelle grandi sentinelle nere sono necessarie a mantenere la pace, l’ordine e l’armonia, ci è stato detto che il nostro cervello non può sopportare le onde emesse per tutto l’arco delle ventiquattro ore e che dunque, durante la notte, le macchine devono essere spente.
E durante la notte noi dobbiamo dormire.
Per questo mastichiamo le tavolette di sonnifero dopo cena.
Alle otto di sera suona la prima sirena, abbiamo un’ora di tempo per sbrigare le ultime faccende e preparaci. Così prendiamo il nostro farmaco, anche i bambini e ai neonati viene sciolto nel latte, e ci mettiamo a letto. La seconda sirena, quella delle nove, ci giunge come un’eco lontana quando ormai siamo già avviluppati dal sonno profondo e senza sogni. Alle sette della mattina seguente un’allegra marcetta assai orecchiabile ci sveglia.
In quelle dieci ore di stasi anche i Ripetitori dormono, la musica mattutina segna il riprendere delle normali attività.
Allora si va a lavorare, a scuola, al mercato.
Si vive la giornata in mezzo alla gente, ci si svaga soprattutto perché il lavoro è solo un altro modo di passare il tempo.
Tutti abbiamo tutto, non ci sono invidie e rivalità, le nostre donne sono ugualmente bellissime e curate, gli uomini atletici ed abbronzati, i bambini gentili e ben educati.
Ma come è possibile che ogni cosa sia così tanto perfetta? Come può essere questa la vera realtà?
Per questo motivo da quattro notti non dormo.
Sputo la tavoletta di sonnifero nell’acqua del water quando vado in bagno a lavarmi i denti. Guardo l’uomo sorridente nello specchio, mi passo una mano tra i capelli folti e rossicci e mi sembra strano che quella faccia mi appartenga davvero. Chi sono io? E ogni volta che lo chiedo un brivido ghiacciato mi corre lungo la schiena.
La prima notte di veglia attesi il suono della seconda sirena con un misto di curiosità ed eccitazione, come i bambini che la notte di Natale aspettano i doni. In quella manciata di minuti mi chiedevo cosa sarebbe successo quando i Ripetitori sarebbero stati spenti.
Nell’attimo in cui il lamento dalla strada sibilò annunciando l’ora fatidica sentii il respiro di mia moglie stesa accanto a me cambiare. Da dolce, lento e regolare divenne un ansimare cupo e ringhioso, quasi un latrato. La rassicurante luce dei lampioni che filtrava dalla finestra si tramutò di colpo in un bagliore violaceo, livido, brutale.
Strinsi le palpebre per non vedere, senza osare girarmi verso mia moglie. Il respiro che sentivo provenire dalla sinistra del letto non aveva più nulla di umano, era il gorgoglio di qualche oscena creatura di palude, melmoso e viscido al tempo stesso. Per timore non mossi alcun muscolo, restando rigido e teso. Troppo grande era il disgusto di toccare il mio stesso corpo poiché ad un esame attento mi resi conto che uguale rantolo proveniva anche dal mio torace.
In quelle ore di terrore la luce dell’alba e la marcetta gioiosa mi sembrarano lontane secoli, eppure alla fine giunsero ugualmente. E con l’accensione dei Ripetitori i suoni che continuavo a sentire riacquistarono un’umana connotazione.
Per tutto il giorno pensai all’accaduto, senza riuscire a concentrarmi su null'altro. Mi dibattevo nel dubbio se affrontare un’altra notte di veglia o lasciar perdere quegli insani propositi, ma quando la prima sirena suonò la decisione fu presa.
Identica a quella della sera precedente.
La mia tavoletta di sonnifero cadde dolcemente nell’acqua azzurrina del water.
Identico fu anche l’orrore, il rantolo pesante e l’angoscia di condividere il letto e il corpo, il mio stesso corpo, con un essere mostruoso ed alieno.
La terza notte provai ad isolare gli odori poiché ai suoni ormai stavo cominciando ad abituarmi mio malgrado. Tutti i profumi tipici di una calda notte d’estate come l’erba tagliata di fresco o il salmastro del mare portato dal vento cessarono di colpo, sostituiti da un orribile tanfo di putrefazione. Cannella irrancidita come nei libri di storia a scuola veniva descritto l’odore delle mummie conservate dal tempo. La camera ne era piena, entrava dalla finestra spalancata, appestava ogni piega delle lenzuola che la mia mente adesso considerava alla stregua di sudari.
E una domanda rimbombava nel mio cervello.
Cosa fanno davvero i neri Ripetitori?
Possibile che alterino la realtà così da donarci la visione di un mondo tanto idilliaco quanto fittizio?
Possibile che tutto ciò che vedo, che sento, che tocco sia solo menzogna? Annebbiamento dei sensi?
La quarta notte arrivai ad una svolta.
Invece di restare immobile ad ascoltare quel respiro inumano e respirando l’orrendo puzzo della morte, avrei usato il senso del tatto.
Follia!
Posai la mano sul mio stesso petto, sentii una sostanza cedevole e mucosa sotto le dita (erano davvero dita le mie? O piuttosto abbozzi di tentacoli?). Esplorai il torace ma incontrai solo una carcassa molliccia e spugnosa, mentre affondavo il mio arto (sono dita, non tentacoli… sono la notte e l’angoscia a generare queste idee insensate!) tastai solo una viscida sostanza amorfa.
Immaginate il ribrezzo e lo schifo!
Smisi di toccarmi, gli occhi sempre serrati e le orecchie invase dal respiro contorto di mia moglie mescolato al mio stesso rantolare inarticolato, le narici piene di quell’odore nauseabondo.
Basta! Era una tortura indicibile!
Maledissi mille volte l’acqua azzurrina del water che aveva inghiottito la tavoletta per dormire, meglio sarebbe stato per me non aver mai cominciato questa follia.
Ma lucidamente compresi che era tardi per tirarmi indietro e fare finta che nulla fosse mai accaduto.
Sarebbe stato abominevole dover continuare a sospettare che tutta la mia vita altro non fosse che finzione!
Per tutto ciò stanotte aprirò gli occhi.
Voglio vedere la realtà per quella che è, almeno una volta, benché io sia certo che un attimo dopo crollerò morto con la mente sconvolta.
Nessun uomo è capace di sostenere il peso di tale verità.
Perché io so già la risposta alle mie domande, ho pensato molto in questi ultimi giorni.
La guerra totale, le radiazioni ci hanno cambiati. Hanno fatto di noi degli orribili mostri.
La Terra intera è mostruosa, la nostra esistenza è solo illusione.
Ci trasciniamo contorti in viscide e putrefatte paludi, le nostre città altro non sono che questo.
I Ripetitori ci illudono, ci mostrano cose che non sono più, ci regalano il miraggio di avere ancora parvenza di esseri umani.
Ma stanotte, nello specchio, voglio vedere il mio reale volto. Voglio vedere qual è il passo finale dell’evoluzione dell’uomo.
Per poi subito dopo impazzire.




giovedì, maggio 25, 2006

Tutto scorre

Stamattina (anche se preferisco il tramonto) guidavo, una stradina di campagna dove passo spesso. Lunga e diritta, pochissime curve, così da vedere l’orizzonte attraverso gli alberi che si piegano tra di loro. Quasi deserta, anzi deserta a pensarci bene…senza altre auto ad incrociare la mia. Quando è così vorrei andare avanti senza dovermi fermare, percorrere quella stradina fino a precipitare al limite della Terra che sconvolgendo (sorpresa, sorpresa! ) ogni nozione astronomica risulterebbe essere piatta.

Un disco verde-azzurro lanciato nel cielo da un atleta titanico in chissà quale antichissima Olimpiade.

E invece, grazie al convenzionale spazio curvo, se percorressi la mia stradina campestre all’infinito non farei altro che tornare sui miei passi in un ciclico andare sempre uguale a se stesso.
Serpente che si morde la coda!

Non è mille volte meglio cadere nel vuoto e fluttuare tra le galassie?

Invece maciniamo distanze incalcolabili su strade polverose e assolate che ci riportano indietro ogni volta.

Eppure l’uguaglianza è solo apparente.

Diveniamo altro ad ogni passo che compiamo, ad ogni respiro l’aria che ci invade ci rende composti da molecole diversi, da atomi nuovi. Ogni pensiero che nasce nel nostro cervello ne modifica la struttura, ogni giorno che scorre ci rende uomini nuovi di zecca.
Fluiamo attraverso la vita assorbendo tutto ciò che incontriamo.

Pensate…un volto sconosciuto visto magari da bambini in un quando e in un luogo imprecisati può essere causa del nostro ideale di bellezza. Un suono udito milioni di attimi fa può aver scolpito il nostro gusto musicale.
Siamo un complesso di sensazioni assimilate per sbaglio, perché nati qui piuttosto che altrove. Come spugne gettate in un brodo primordiale di idee beviamo e viviamo, viviamo e cambiamo.

Quindi la mia stradina campestre è diversa ad ogni passaggio, mutano i colori degli alberi, le sfumature del cielo, sono mutati i miei occhi e i miei umori. Sono mutati i pensieri.
Potrei camminarci mille volte al giorno per mille giorni diversi, non calpesterei mai lo stesso suolo.
Non sarebbe mai la stessa persona a percorrerla.
Lo sapete bene, tutto scorre.
Non sono certo io la prima a dirlo.

But now there's wrinkles around my baby's eyes
And she cries herself to sleep at night
When I come home the house is dark
She sighs "Baby did you make it all right"
She sits on the porch of her daddy's house
But all her pretty dreams are torn
She stares off alone into the night
With the eyes of one who hates for just being born
For all the shut-down strangers and hot rod angels
Rumbling through this promised land
Tonight my baby and me we're gonna ride to the sea
And wash these sins off our hands
Tonight tonight the highway's bright
Out of our way mister you best keep
`Cause summer's here and the time is right
We're goin' racin' in the street


mercoledì, maggio 24, 2006

Linee



Ci sono giorni in cui tutto quello che è avvenuto nei mesi, negli anni appena trascorsi assume un significato diverso.

Alcuni momenti si stagliano come una netta linea di demarcazione tra quello che eravamo prima e quello che siamo stati un attimo dopo.

Come se tutta la vita vissuta fino al quel momento sia appartenuta ad un’altra persona, come se tutte le nostre vicende fossero in realtà proprietà di un essere diverso da noi.

Se guardiamo oltre quella linea formata da un unico episodio…una lettera… un incontro…una telefonata…ci sembra impossibile aver vissuto tranquilli e beati prima di quell’epico, epocale evento.

Pare che l’intera nostra esistenza si sia schiusa solo dopo quell’accadimento e tutto ciò che era stato ci appare vuoto di senso.

Questo accade quando ci innamoriamo e la stessa identica cosa succede alla fine.

Quando quella persona che era stata per noi unica ed insostituibile ci appare di colpo inutile ed obsoleta, ingombrante gingillo di cui disfarsi.

Oppure se un comportamento, un gesto, un litigio, un tradimento disvelino senza ombra di dubbio che l’essere così tanto amato altri non era che normale mortale pieno di contraddizioni.

Anzi, meglio essere precisi e spietati.

Noi già lo sapevamo, ma mentivamo a noi stessi.

Perché per vanità usiamo vestire l’oggetto amato di qualità eccezionali così da convincerci che una tale perla rara sia di nostra unica proprietà.

Non vediamo le meschinità, le debolezze, l’umanità. O se le vediamo, le giustifichiamo con scuse che in quei momenti sembrano valide.

Poi, lentamente, la noia, l’abitudine, la vita che scorre fa piazza pulita dei veli di seta con cui abbiamo rivestito la nostra coscienza e davanti agli occhi si mostra l’ individuo per quello che è. Fallace, umano.

A quel punto, se l’amore vacilla, subentra il disgusto e diventano intollerabili anche quelle cose che un tempo ci apparivano liete.

Ecco, quando questo accade tutta gli anni passati insieme si svuotano di senso.

Ti volti indietro e vedi due sconosciuti… te e l’altro.

E ti domandi come hai potuto andare avanti tanto tempo in quel modo.

In quel preciso momento è finita. Non c’è possibilità di sanare, non c’è via di scampo.

Come nell’istante del primo incontro hai compreso che la tua vita era mutata per sempre, anche adesso sai che quella porzione di anni ha fatto il suo tempo. Sono anni passati e finiti.

L’ennesima oscillazione del pendolo segna in terra un solco netto. E' la nuova linea di demarcazione tra il prima e il dopo, ora sai che è il momento di non guardare più indietro.

martedì, maggio 23, 2006

Racconto


Ogni tanto scrivo racconti, nugae per passare il tempo...

LA CONDANNA

Leggete, questa è la mia storia..

Sono nato il 13 marzo, anno del Signore 1722.

E’ evidente, dunque, che tra una settimana contando da oggi, sesto giorno di marzo dell’anno 2006, cadrà il mio duecentottantaquattresimo genetliaco.

Di nobile e antica schiatta, molteplici documenti attestano la partecipazione del fondatore della Nostra Casata alla Prima Crociata, dimoravo con mio Padre, il Duca di Beaujou-Goncourt, nell’avito palazzo di famiglia nella vasta campagna a ridosso di Parigi. Di indole silenziosa e schiva alla ritrosia innata del mio carattere si univa una condotta scontrosa e poco cordiale che mi sottraeva sin dalla più tenera infanzia ai giuochi abituali dei miei coetanei. Mai ebbi a rotolare nel fieno delle stalle in compagnia dei figli giovinetti della servitù, mai addomesticai un cane piegandolo ai miei voleri, costringendolo a fingersi morto a comando o a porgere le zampe allo scopo di ricevere in cambio un pezzo di carne. Mai mi lanciai in corse affannose per la campagna in quelle cacce al tesoro che sovente impegnavano gli altri ragazzi negli assolati pomeriggi estivi, non una volta le mie risa argentine risuonarono sotto le arcate del padiglione di mia Madre quando giocolieri e funamboli intrattenevano le dame durante le festicciole di compleanno. Mio Padre non poté mai godere della mia compagnia nelle battute di caccia, neanche in quelle occasioni solenni ove Sua Maestà in persona aveva la compiacenza di onorare la nostra Casa con una Sua visita. Nemmeno una volta volli montare lo splendido stallone baio donatomi dai miei genitori per il mio tredicesimo compleanno. Mi limitai a carezzargli la lunga criniera nera intrecciata di gale con la punta delle dita facendo scorrere lo sguardo sul mantello color dei mattoni e subito comandai che fosse condotto nelle stalle. Il solo contatto, sebbene fugace, con quell’essere scalpitante e vigoroso, la sola visione dei suoi muscoli contratti pronti a lanciarsi in corse affannose tra i boschi generavano in me il più profondo disgusto.

Feste, balli, pranzi di gala non esercitarono su di me, giovinetto, alcuna attrattiva.

Le chiome bionde delle fanciulle, agghindate di piume o impreziosite di gemme, non richiamavano la mia attenzione. I ventagli preziosi che celavano le piccole bocche sorridenti, i nei vezzosamente applicati su guance rosate di belletto, gli sguardi languidi lanciati da un capo all’altro degli enormi saloni, i bigliettini amorosi lasciati cadere tra i fiori nei vasi, i fazzoletti delicati di battista scivolati dalle mani inguantate e precipitati in terra accanto ad un sofà, nulla di tutto questo poteva scuotere la mia assoluta inerzia. Ogni civetteria femminile con me era solo un inutile spreco di tempo. Le molteplici gonne fruscianti, le sete, quelle complicate architetture di stecche che gonfiavano i corpi e gli stretti corsetti con i loro mirabili intrecci a sollevare seni appena sbocciati non solleticarono mai la mia curiosità, non ebbi mai a chiedermi cosa fosse nascosto sotto quei monumenti di trine e merletti. Quelle forme acerbe ingrossate di stoffe non significavano nulla per me.

Non un fremito, non una curiosità, non un impulso vitale.

Ero vivo eppur nello stesso tempo morto.

Trascinavo i miei giorni nell’inattività assoluta, seduto nel vano della grande finestra della mia camera a guardare al di fuori. Eppure non ero malato, almeno non lo ero nel corpo. Ma a sollevare il mio torace nella faticosa operazione del respirare era l’anima avvizzita di un vecchio, la mente spenta di un cadavere muoveva il mio muscolo cardiaco attimo dopo attimo nell’incessante pompare del sangue.

Non avevo scopo, non avevo voglie.

Vivere rappresentava solo un vuoto accumularsi di ore lente ed insensate che si susseguivano giorno dopo giorno, anno dopo anno.

La morte di mio Padre mi lasciò finalmente padrone assoluto della mia inattività, decisi quindi di sollevarmi anche del penoso compito di dover fare toeletta per presentarmi al tavolo del desinare. Disposi che ai pasti mi fosse servito in camera solamente un vassoio con del pane, del vino e della carne poiché anche il semplice atto del mangiare costituiva per me un tedio infinito.

I più clementi nei miei riguardi, tra di essi mia Madre, scusavano la mia condotta adducendo il pretesto della mia innata riflessività, ma invero sbagliavano poiché le ore alla finestra erano vuote anche di pensiero. Io osservavo l’esterno, ma su nulla esercitavo le facoltà di giudizio, mi limitavo a vedere e obbligavo la mente a restare sopita.

Oggi comprendo quale pazzia fosse, ma in quei tempi desideravo solo la morte che desse riposo a quelle membra centenarie di giovane uomo.

I libri si accumulavano sul mio tavolo, non leggevo e non scrivevo lettere. Al mio segretario dettavo con infinito dispetto quelle missive necessarie alla conduzione dei miei affari, sbrigavo quell’incombenza come se mi fosse fatta violenza fisica poiché ero costretto a dovermi vestire per rendermi presentabile ad un mio sottoposto. Solo il mio antico lignaggio m’impediva di essere trasandato in presenza d’altri, quella sorta di orgoglio che ci fa sentire migliori esclusivamente in virtù delle nostre nobili origini e che ci obbliga a porci sempre e comunque al di sopra di tutti nei modi, nei gesti, negli abiti.

Invecchiavo e con l’età matura aumentava la noia di vivere, o sarebbe più corretto dire che aumentava la noia verso quella forma vegetativa di esistenza che avevo scelto di condurre, ma il mio spirito aborriva adesso qualsiasi forma di attività con una repulsione ancora maggiore di quella provata in giovinezza.

Gli echi rivoluzionari che giungevano da Parigi arrivavano filtrati alle mie orecchie disattente senza che io provassi lo sconvolgimento che scuoteva i miei pari. Facessero i villani quello che volevano! Io attendevo la morte e se avessero assaltato il mio palazzo mi avrebbero evitato anche la fatica di dover provvedere da solo. Perché alla fine quello sarebbe stato il mio Fato. Un colpo netto di rasoio alle vene dei polsi, unico atto di azione in una vita di stasi.

Requie non giungeva nemmeno di notte.

Il sonno, il ristoro del giusto, di colui che riposa dopo la fatica, sfuggiva dai miei occhi sommando alle ore insane del giorno anche la noia di quei minuti interminabili che si dipanavano come un rotolo di spine nel buio della camera silenziosa. La pendola del salottino privato batteva le ore, ma io percepivo finanche il frusciare delle lancette sull’avorio del quadrante, mi figuravo il loro avanzare lento, beffardo, indisponente e soprattutto incurante della mia veglia forzata.

Non riuscivo a tollerarlo abituato com’ero ad imporre il mio volere come legge nei miei possedimenti. Al pari di un Dio maligno era mia facoltà sopprimere la vita di un servo che mi avesse reso scontento con la sua condotta, ma il tempo, le ore, i minuti, i secondi erano al di fuori del mio controllo, piccole ed insignificanti particelle, inquietanti nella loro ineffabilità. Esse trascorrevano prescindendo da me e dai miei bisogni e io non avevo modo alcuno di ridurle ai miei voleri.

Allora mi alzavo, stizzito, e per farmi dispetto da solo avevo preso l’abitudine di passeggiare nel parco. Almeno così, dopo alcuni minuti di moto, la stanchezza delle membra scacciava quella veglia forzata e potevo trovare conforto in quel sonno inquieto di primo mattino.

Ma già presentivo che questa insana condotta mi avrebbe precipitato nel baratro della perdizione.

Girovagavo nel parco, smemorato finalmente del tempo che passava così da non aggiungere alla fatica fisica anche quella dell’osservazione dei luoghi, quando udii alle mie spalle un fruscio di passi. Non ebbi il tempo di chiedere chi fosse o che cosa facesse all’interno della mia proprietà, probabilmente un vagabondo venuto a rubare dei polli, ma dotato di mano lesta quanto il più provetto dei tagliagole.

Non compresi, non urlai. Caddi vomitando sangue, le mani premute sul collo restando raggomitolato sull’erba mentre il mio aggressore si dileguava. Nel silenzio assoluto ascoltavo il mio cuore battere sempre più lentamente e il gorgoglio di quello strano liquido rosso che sembrava appartenere ad un altro che non fossi io. Defluiva denso, diventava una pozza scura accanto al mio volto, rifletteva le stelle che trapuntavano il cielo al di sopra di me, fredde e distanti.

Infine più nulla, morivo e non provavo niente di niente.

Attesi che il cuore pompasse per l’ultima volta, esalai il respiro definitivo e poi rimasi in ascolto. La mia mente era vigilie all’interno del mio corpo cadavere.

In silenzio.

Rimasi così raggrumato in me stesso senza osare far nulla, per la prima volta stranamente apprezzavo i miei muscoli pronti all’azione, ma un indescrivibile senso di prudenza mi intimava di restare fermo.

Passò il tempo, un’alba livida spuntò all’orizzonte e con un sussulto ascoltai il mio cuore rimettersi in moto. Strano sentire lo scatto di una molla di orologio provenire dall’interno di una carcassa morta, ma eppure era quello che mi stava capitando. Il cuore batteva e il mio diaframma intorpidito si sollevò per la prima volta dopo molte ore.

Compresi che era tempo di rientrare, mi alzai e d’istinto portai la mano alla gola per pulirmi del sangue, pronto a scostarla con raccapriccio se avessi sentito sotto le dita i lembi di pelle squarciati dal taglio. Invece nulla, ma invero già sospettavo che la ferita fosse svanita. Se il mio cuore era stato capace di ripartire da solo, un taglio che si rimarginava era pari ad un’ inezia.

Scossi le foglie secche dalla mia veste da camera e mi avviai verso il palazzo.

La servitù si stava svegliando, quegli uomini semplici mi guardarono sorpresi non so se a cagione del mio aspetto o semplicemente nel vedermi alzato di primo mattino, salutai tutti con un cenno del capo e salii nelle mie stanze.

Un occhiata al grande specchio da toeletta e compresi il motivo degli sguardi curiosi dei servi.

I miei capelli grigi e radi si erano fatti maggiormente folti e scuri, le rughe che segnavano il mio viso erano spianate, il naso non più cadente, gli occhi non più cisposi. Non ero tornato fanciullo, no questo non era accaduto, ma tutto il mio sembiante non dimostrava più di cinquant’anni.

Urlai come una bestia presa dalla tagliola, colpii con forza lo specchio mandandolo in frantumi. Volevo esser morto e mi ritrovavo ancora vivo e rinvigorito!

Se al momento di andare a letto la sera precedente confidavo sulla mia età ottuagenaria per giungere ad una fine prossima e decorosa, quella che mostravo ora di primo mattino allungava invece la mia condanna.

Maledizione, sortilegio, incantamento? Quale divinità beffarda osava prendersi gioco di me in quel modo crudele?

Chiusi a chiave la porta e raccolsi da terra uno dei cocci dello specchio, con selvaggio piacere lo feci scorrere lungo i polsi, vidi la carne aprirsi e rivoli di sangue rosso gocciolare dalle ferite, poi la malia di cui ero vittima operò in me il mutamento e osservai con orrore infinito i tagli richiudersi lasciando la mia pelle liscia e soda senza traccia alcuna della violenza patita.

Provai, provai e provai ancora. Sulle braccia, sulla gola.

Afferrai un tagliacarte dallo scrittoio e me lo conficcai dritto nel petto, lo rigirai sentendolo affondare in me sempre più profondamente mentre cadevo in terra gemendo.

Restai lì come era accaduto durante la notte, ad attendere che il respiro svanisse e il cuore sussultasse per un ultima ( illuso!) volta fino a quando, dopo quella che a me parve un’eternità, inesorabile lo sentii riprendere a battere, un colpo dopo l’altro.

A fatica, evidentemente quel rigenerarsi continuo spossava il mio organismo, mi aggrappai alle cortine del letto e mi rialzai. Il sangue imbrattava in larghe chiazze il pavimento, la mia veste ne era interamente ricoperta e spruzzi vermigli trapuntavano pareti e mobilio. Strappai le lenzuola e con quelle nettai, mai in vita mia avevo lavorato tanto e con tanta puntigliosità, tutto quello su cui si posava il mio sguardo. Era sera quando terminai. Giudicai soddisfacente l’aspetto mio e dell’appartamento e riaprii la porta chiamando a gran voce il mio valletto.

Il servo, che durante quella mirabolante giornata aveva più e più volte, invano, bussato alla mia porta, si precipitò al mio cospetto chiedendomi di cosa avessi bisogno. Chiesi il consueto vassoio di pane, vino e carne e diedi disposizioni affinché il grande involto di biancheria da letto che troneggiava nel centro del mio salottino fosse portato via e bruciato subito.

Il vento rivoluzionario di Parigi non spirava ancora forte in direzione dei miei possedimenti, i servi ubbidivano ancora prontamente ai miei voleri soprattutto a causa del mio parco stile di vita che non richiedeva da parte loro un lavoro estenuante. Quindi senza fiatare furono eseguite le mie richieste e in breve tempo fui ristorato e messo a letto. Per la prima volta, dopo molti anni dormii.

Al mattino ripresi la mia vita come sempre l’avevo condotta, inattivo e parassitario, ma ora avevo consapevolezza dell’eternità della mia condanna.

Fui costretto a vendere il Palazzo e tutti i miei possedimenti, emigrai in Inghilterra prima che la Rivoluzione si decidesse a spazzare via la mia epoca e tutti i suoi vizi, anche se a volte penso con rammarico a quanto sarebbe stato interessante vedere l’effetto della ghigliottina sulla mia testa.

Periodicamente il mio organismo si arresta, le funzioni vitali si assopiscono per una notte, ma al mattino dopo inevitabilmente mi ritrovo ringiovanito, a volte di vent’anni a volte di trenta. Dipende e non ho ancora compreso appieno lo strano meccanismo che governa la mia esistenza.

Quando questo accade so che è giunto il tempo di migrare, raccolgo i miei effetti personali ed i miei beni e cambio città per non destare i sospetti della gente che mi vive accanto.

Non so se esistano altri come me, non so fino a quando continuerò a rigenerarmi e se tutto ciò un giorno dovesse aver fine, per ora mi sono adeguato alla modernità.

Seduto non più nel vano della finestra, ma davanti ad un enorme televisore acceso giorno e notte e che mi allevia il peso dell’insonnia. Così guardo il mondo che vive, ma ancora non provo desiderio di agire anzi il disgusto è radicato in me sempre più forte vedendo il continuo affanno delle genti nella loro corsa febbrile lungo la china dell’esistenza.

Non ho mai più provato ad uccidermi, ma continuo ugualmente a maledire ogni istante Colui che ha disposto per me questa vita dannata e senza speranza. E sono certo che Egli riderà forte quando nell’attimo stesso in cui assaporerò per la prima volta la bellezza dell’esistere, come un novello Faust, il mio cuore cesserà per sempre i suoi battiti.

lunedì, maggio 22, 2006

Perchè un BLOG?

Perchè fermarsi ogni giorno a scrivere un frammento d'idea? Da dove nasce il bisogno di ripensare alle ore trascorse che in fondo sono identiche ogni giorno che passa?

Ieri è come oggi, oggi sarà lo stesso di domani.

Stessi impegni, stesse vicende, stesso vissuto.

La regolarità è la nostra meta, l'imprevisto ci scuote nel profondo.

Non credo a chi dice di sognare una vita movimentata. Il nostro scopo è solo ed unicamente inanellare giorni sicuri, dove tutto sia sotto controllo.

Vivere sapendo già cosa accadrà domani, quali persone incontreremo, quali cibi mangeremo.

Allora a che scopo narrare dell'abitudine?

Perchè interrogarsi su questa galleria di specchi che si riflettono uguali gli uni negli altri?

Perchè la vita altro non è che susseguirsi di ore, di attimi vissuti mille e mille volte, di passi uguali e misurati trascinati con meticolosa regolarità.

Però...il però c'è sempre (o quasi )... nascosti, mischiati, confusi in mezzo a questo mare di noia possiamo, rovistando, estrarre momenti di assoluta bellezza, di incomparabile gioia.

Dobbiamo solo riconoscerli e cristallizzare l’Armonia delle Sfere in un quando preciso così da poter rievocare quel ricordo in caso di bisogno.

Allora scriviamo pagine e pagine per tentare di fissare il brandello di felicità strappato alla vita, mettiamo pensieri su carta…su schermo…conserviamo cadaveri di fiori disseccati, biglietti da visita, lettere, memorie di ogni tipo e natura. Impiliamo scatole e scatole di fotografie, ordinate con le date segnate a penna sul retro, perché la necessità impellente è quella di bloccare l’esistenza che scorre inarrestabile.

Un BLOG è una di queste memorie, tentativo di essere eterni…di vivere i nostri momenti anche un solo momento di più.

Dichiaro quello che penso, o quello che voglio lasciarvi intendere del mio pensiero…scrivo se posso, se ho tempo.

Fermo la Vita a mio modo.

domenica, maggio 21, 2006

OK...ci provo!


Sono qua, dalla finestra aperta dietro di me il vento entra carico del profumo dei gelsomini in fiore...ho pensato..perchè non buttarmi anche io nella grande arena del BLOG?
Quindi ho fatto tutto quello che era in mio potere per provvedere ad un dignitoso account e sto muovendo i primi passi per cercare di capire come fare a linkare qui i blog dei miei amici...
Chiederò consiglio a chi di dovere nel caso non dovessi riuscire ;-) Ok?
Non so ancora di cosa parlerò...non credo di me, almeno non di me in senso stretto...più o meno di me riflessa in immagini o suoni...di quella che sembro non di quella che sono.
Quella che io sono non lo so e non lo voglio nemmeno sapere, anche io...sapete...ho un'immagine di me e me la tengo stretta, molto stretta.
A prestissimo